Dentro lo Steri: le Carceri filippine, la Sala Magna e l’interrogatorio
I principali casati siciliani risultano legati all’Inquisizione: principale motivo per cui tutti i materiali sensibili del Tribunale vengono bruciati alla sua abolizione. In pieno Settecento illuminista, anche in Sicilia, nessuna famiglia gentilizia voleva essere in qualche modo apparentata a quella che risultava una retrograda macchina repressiva. Con il rogo si riesce per decenni a cancellare memoria dell’appartenenza a un’organizzazione che alla sensibilità nobiliare settecentesca, nutrita di pensieri illuminati, appariva ripugnante. Per quasi tre secoli, invece, la nobiltà ha barattato gli ulteriori privilegi che vengono dalla famigliatura con la delazione. E forse è per l’accusa di qualcuno di loro che oggi ci troviamo dinanzi al portone dello Steri, alle spalle dell’inquisito che ci guiderà in questo nostro percorso.
È notte, perché gli algozini effettuano la cattura dei prigionieri con il favore delle tenebre, in numero ragguardevole per evitare che – come ci dicono i documenti – scappi dalla via dell’orto. Li accompagna un notaio che, mentre l’inquisito in catene si avvia verso il tribunale, conteggia attentamente tutto quanto egli possieda: beni, titoli di credito, oggetti preziosi, ma anche utensili comuni. A partire da questo momento, infatti, malgrado egli si trovi nelle mani degli inquisitori, dovrà pagare ogni cosa necessaria al suo mantenimento fino al processo: il cibo, il pagliericcio se ne vorrà uno, la sedia se si vorrà sedere (foto), il medico che lo visiterà prima della tortura e quello che lo visiterà dopo, la stoffa e la manifattura per la confezione del sambenito, l’abito della vergogna che dovrà portare pubblicamente. Se poi al processo risulterà colpevole la requisizione temporanea fatta al momento dell’arresto diverrà definitiva.
Il primo luogo dove il prigioniero o la prigioniera è condotto si trova al piano terra dello Steri. Si tratta dell’antica Sala delle Armi dei tempi chiaramontani. Nel Seicento quest’ambiente si trasforma nelle cosiddette carceri filippine, in onore del re Filippo III: una grande sala affrescata con soggetti devozionali, probabilmente commissionati dagli stessi inquisitori per indurre al pentimento. In questa stanza l’inquisito ha tempo di riflettere sulle sue colpe che, però, non gli sono state ancora comunicate.
Viene poi portato dinanzi all’inquisitore per l’interrogatorio, che si svolge nella sala più bella dello Steri: la Sala Magna, un enorme ambiente dal soffitto a cassettoni con più di cento storie dipinte. Si tratta di episodi tratti dalla letteratura classica conosciuta in epoca medievale e dalla letteratura cortese: li accomuna il fatto che al centro della narrazione vi è sempre una figura femminile. Sotto la direzione del Primo inquisitore, coadiuvato da altri due, alla presenza di un notaio che annota scrupolosamente domande e risposte, talvolta dinanzi all’alcalde, il capitano di polizia, si effettua l’interrogatorio. Il rituale prevede che il Primo inquisitore ammonisca il prigioniero per tre volte: a questo punto, gli vengono formulate le accuse, ma le testimonianze addotte sono prive dei più elementari punti di orientamento per l’accusato (nomi di eventuali testimoni, luoghi e così via, in modo da tutelare i delatori). Per ottenere una confessione si giunge così a utilizzare la tortura, il supplizio della corda, che consiste nell’appendere lo sventurato a una puleggia per poi lasciarlo cadere violentemente verso il basso causandogli slogature alle articolazioni. Con la tortura si ottiene la confessione, prova piena della colpa. La tortura non può durare più di mezz’ora, ma in questo tempo ridotto è possibile slogare completamente un individuo e lasciarlo dolorante se non storpio, fino alla fine dei suoi giorni. La tortura viene somministrata ogni quarantotto ore fino alla confessione; a questo punto viene emessa la sentenza. Caratteristica della giustizia inquisitoriale è quella di non rispettare la procedura seguita in tutti i tribunali europei e che deriva dal diritto romano, che impone la pubblicità delle norme. Norme e forme del giudizio inquisitoriale rimangono segrete: per cui non è facile stabilire a priori la lievità o la gravità della pena. Oltretutto durante l’interrogatorio l’imputato può fare affermazioni che risultano fastidiose alle orecchie degli inquisitori e la sua situazione aggravarsi.
L’inquisito può essere assolto, riconciliato ossia riammesso al novero dei credenti con una lieve penitenza, con la cosiddetta abiura de levi (un’ammissione pubblica delle proprie colpe, seguita da una richiesta di perdono), con la cosiddetta abiura de vehementi (una sorta di secondo battesimo, che può essere fatto una volta sola nella vita) e una penitenza più dura, il carcere per un determinato tempo o il servizio nelle galere. Quest’ultima pena, data la durezza della vita dei rematori, equivale alla pena di morte. Infine, nel caso di colpe particolarmente gravi, gli inquisitori possono rilasciare l’inquisito al braccio secolare. Essendo sacerdoti non possono condannare a morte; è la giustizia secolare che si occupa di eseguire la sentenza, generalmente con il rogo. Le condanne sono rese pubbliche durante una solenne processione, l’autodafè.