L’autodafè
Una volta caduti nelle mani dell’Inquisizione, gli accusati devono comunque prendere parte alla cerimonia che consente il loro reinserimento nella società cattolica, l’autodafè, l’atto di fede, una pubblica processione che culmina in uno spettacolo devoto e spesso, nel Cinquecento e nella prima metà del Seicento, in un rogo. Difficile uscire diversamente che con l’autodafè dallo Steri: la terziaria francescana Francisca Spitaleri, inquisita come strega e veggente, oltre come seguace dell’alumbradismo, isolata in una stanza vicino agli appartamenti dell’alcalde – il capitano del castello – tenta di calarsi da una finestra usando delle lenzuola annodate il 9 giugno 1622. Viene trovata l’indomani mattina sfracellata sul selciato, poiché la corda improvvisata non ha retto.
Dal momento dell’istituzione dell’Inquisizione fino al suo scioglimento vengono celebrati in Sicilia 114 autodafè, la maggior parte dei quali a Palermo. Si tratta del primo momento in cui coloro che sono stati catturati possono tornare a rivedere i loro cari, che per settimane, talvolta per mesi non hanno saputo nulla di loro. In occasione dell’autodafè la capitale si riempie quindi di persone desiderose di assistere allo spettacolo per sapere che fine hanno fatto i loro congiunti caduti nelle mani degli inquisitori.
Nell’androne dello Steri gli inquisiti si preparano: con il loro stesso denaro è stato acquistato quanto necessario per confezionare il sambenito, uno scapolare giallo – colore dell’infamia – e una mitra. Già da quanto dipinto sul sambenito si può sapere quale sarà la sorte dell’inquisito: chi porta la croce di sant’Andrea sarà verosimilmente riconciliato; chi porta le fiamme rivolte verso il basso penitenziato; chi con le fiamme verso l’alto rilasciato al braccio secolare. Di molti autodafè sono rimaste descrizioni accuratissime. Di una delle ultime manifestazioni di cupo splendore dell’Inqusizione isolana ci è rimasta una descrizione accurata immediatamente data alle stampe, L’atto pubblico di fede solennemente celebrato nella città di Palermo a 6 aprile 1724 dal Tribunale del S. Uffizio di Sicilia del canonico palermitano Antonino Mongitore. L’opera viene commissionata dagli stessi inquisitori a colui che sembra, in quel momento a Palermo, lo scrittore maggiormente convinto della bontà di metodi che ormai, anche in ambienti cattolici, appaiono superati e controproducenti. Desideroso di dar mostra di tutto il proprio zelo, Mongitore descrive puntigliosamente il corteo che lascia il palazzo dello Steri per percorrere l’intero Cassaro e giungere al piano della Cattedrale. Il corteo viene aperto dalla croce verde velata dell’Inquisizione, seguono i familiari e la Compagnia dell’Assunta, la confraternita legata all’Inquisizione dove trovano posto molti aristocratici, poi gli inquisitori a cavallo insieme a tutti i dipendenti del tribunale, infine alabardieri, tamburini e pifferai, magistrature municipali e regie, titolati e funzionari, congregazioni e Ordini religiosi. Al centro stanno «le persone processate in numero di ventotto, ad una ad una, con abito giallo e candela di cera gialla estinta in mano […] con vergognose mitre sul capo, nelle quali erano rozzamente dipinte l’enormità commesse, e i due Pertinaci [suor Geltrude Cordovana e fra Romualdo di S. Agostino]». Il corteo procede a fatica per la città assiepata di curiosi, di familiari dell’Inquisizione arrivati da ogni parte della Sicilia, per arrivare sotto le finestre arcivescovili, dove attende il viceré e dove sono montati gli spalti.
Nella piazza della cattedrale, vengono lette le sentenze. Così non solo la reputazione dei singoli verrà rovinata indelebilmente, ma la vergogna segnerà anche i loro eredi, i quali non potranno per quattro generazioni esercitare uffici pubblici ed ecclesiastici o particolari professioni, nè godere di privilegi quali indossare gioielli, andare a cavallo o portare armi. Impressionante il racconto del Mongitore: mentre si svolge la lettura, tutti i convenuti lasciano i loro seggi e si rifugiano nella parte bassa delle tribune dove cominciano a banchettare con lauti rinfreschi preparati per l’occasione. Così nessuno ascolta la sentenza di rilascio al braccio secolare di suor Geltrude e di fra Romualdo né l’immediata ratifica della loro sentenza di morte.
Al termine del banchetto, e ormai fattosi buio, alla luce delle torce, il corteo si rimette in moto dirigendosi fuori le mura, al Piano di Sant’Erasmo. Qui, i due sventurati «[…] con gli abiti del loro ordine, e con sopravveste intonacata di pece, dipinta a fiamme, e con mitre vituperose pur delineate con fiamme» vengono bruciati vivi, contribuendo a portare al numero complessivo di 265 i condannati a morte dell’Inquisizione siciliana. Uno spettacolo orribile, che – ironia della sorte – proprio grazie allo scritto del Mongitore, ritenuto di riprovazione e non di plauso verso questa manifestazione, viene risaputo e condannato in un’Europa che, ai primi del Settecento, non tollera più i roghi religiosi.