Francesco Benigno, “Emblemi. Riflessione su una cultura espressiva tra mondo rinascimentale e sensibilità barocca”
Viviamo in una società che potremmo chiamare iconica, ovvero nel tempo di quello che è stato chiamato il «pensiero visivo». Le immagini oggi parlano, raccontano, sono di per se stesse latrici di messaggi. Esse possiedono una forza sintetica espressiva in virtù della quale è forse possibile riproporre oggi il detto attribuito da Plutarco a Simonide di Ceo per il quale vi è un rapporto intrinseco tra immagine e poesia: e davvero allora la poesia è pittura, immagine parlante, e la pittura, l’immagine, poesia muta. Davanti ai nostri occhi scorrono le immagini di fotografie o di quadri o di marche pubblicitarie, quelle immagini che tanta parte hanno nel mondo della comunicazione, ed è da questo nuovo punto di vista, quello del dilagare della cultura visiva, che possiamo di nuovo interrogarci sulle forme che prende il nesso tra parola scritta e immagine nella cultura europea della prima età moderna. Se nella Città del Sole di Tommaso Campanella i cittadini imparano da scritti e disegni sui muri, noi che impariamo dai grandi e piccoli schermi dobbiamo interrogarci sul tempo lungo del sedimentarsi delle figure visive in quello che possiamo chiamare l’immaginario collettivo. Allora gli emblemi cessano di essere una reiterata forma convenzionale, una curiosa moda collettiva e divengono uno dei campi in cui si rispecchiano, in un tempo dato, un tempo passato, i problemi complessi della comunicazione.
Scrive Cesare Ripa, nel proemio della Nova iconologia, l’edizione padovana di questa sorta di enciclopedia iconologica che tanta influenza ha poi avuto sulla cultura europea di età moderna, che da una parte vi è l’immagine della quale si serve l’oratore, «et della quale tratta Aristotele nel terzo libro della sua Rettorica mentre dall’altra quella, che appartiene a’ Dipintori, overo a quelli, che per mezzo di colori o d’altra cosa visibile possono rappresentare qualche cosa differente da essa et ha conformità con l’altra»
Conformità: vi è dunque un nesso tra la figura retorica e l’immagine pittorica e questa conformità non sta in una qualche virtù intrinseca del discorso sotteso ad esse ma nella loro congiunta potenza performativa, nella capacità di produrre persuasione: «perché sì come questa persuade molte volte per mezzo dell’occhio, così questa per mezzo delle parole muove la volontà: et perché anco questa guarda le metafore delle cose, che stanno fuori dell’huomo, et quelle che con esse sono congiunte, et che si dicono essentiali».
Vi è dunque qui un intento persuasivo ma anche pedagogico, istruttivo. Il sottotitolo dell’Iconologia overo descrittione dell’Immagini universali cavate dall’antichità et da altri luoghi recita infatti: Opera, non meno utile, che necessaria a’ poeti, pittori et scultori per rappresentare le virtù, vitii, affetti et passioni humane.
Si tratta, scrive Girolamo Ruscelli nel suo Discorso intorno all’invenzione delle imprese, dell’Insegne, de ‘motti e delle livree di «mostrar per segni col senso della vista all’intelletto la forma e l’operazione delle cose», in altre parole di rappresentare i pensieri per mezzo delle figure. Le quali perciò sono immagini fatte per significare una diversa cosa da quella, che si vede con l’occhio: «esse non hanno altra più certa né più universale regola», scrive ancora il Ripa, «che l’imitazione delle memorie che si trovano ne ‘Libri, nelle Medaglie, e ne’ marmi intagliate per industria de’ Latini e de’ Greci, o di que’ più antichi che furono inventori di questo artifitio».
Come ha scritto Mario Praz, le divinità pagane tornarono a un certo punto nel mondo cristiano a imperare tra gli uomini. Mondo cristiano significa tradizione cristiana e così sono ovviamente due i terreni paralleli che costituiscono la fonte dell’universo emblematico; soggetti biblici e soggetti mitologici non costituiscono però campi opposti ed ostili. A mediare tra paganesimo e cristianesimo vi sono, osserva ancora Praz, una schiera di allegorie «quali sacerdotesse che prestavano un doppio ossequio»: gli stessi animali che rappresentano i quattro evangelisti possono servire a rappresentare persone o soprattutto stati d’animo. O ancora, in altri casi, un vero e proprio agone tra i vizi e le virtù (la Psycomachia dello spagnolo Prudenzio) dove il processo di personificazione delle potenze dell’anima assume un’intensità icastica esemplare: accanto ai santi e agli dei figurano un collegio di virtù e un anticollegio di vizi.
Si guardi ad esempio l’immagine di Ripa della virtù impersonata da Bellerofonte a cavallo di Pegaso che uccide la chimera: «Per Bellorofonte bellissimo giovane a cavallo del Pegaseo che con un dardo in mano uccide la chimera, si rappresenta la virtù. Per la Chimera allegoricamente s’intende una certa multiforme varietà de’ vitij, la quale uccide Bellorofonte, il qual dall’etimologia sua vuol dire uccisione dei vitij». Il procedimento di Ripa è come si vede quello della personificazione, soprattutto femminile, di sentimenti, passioni, stati d’animo: si sarebbe tentati di dire un’anima illustrata attraverso la personificazione. Si tratta di un procedimento contrario a quello delle «imprese» con le quali si puntava invece alla simbolizzazione delle persone: che infatti nelle imprese vengono simboleggiate da un uccello, da un animale o da un motto.
Al di là di queste differenze, immagini, emblemi, imprese hanno una storia comune che conviene brevemente ricordare: se si deve scegliere una data per iniziare la storia di questo «nodo di parole e di cose» è il 1419. Quell’anno arriva a Firenze un antico manoscritto greco, i Hyeroglyphica di Horapollo poi stampato da Aldo Manuzio a Venezia nel 1505 nella convinzione, che sarà poi di Erasmo, che il linguaggio delle immagini potesse avere validità sovranazionale e promuovere l’unità universale. E’ soprattutto grazie a questo testo che il mito del geroglifico, inteso come simbolo riassuntivo di un discorso misterico acquista l’enorme influenza che sappiamo. In Misteri pagani nel Rinascimento e in altri studi meritoriamente ristampati o stampati tout court da Adelphi, Edgar Wind ha indagato tutto un filone della cultura umanistica attratto tra XV e XVI secolo dall’antico, e dal mondo pagano soprattutto in ragione di interessi filosofici e misterosofici.
Scrive Piero Valeriano in Hieroglifica, un testo che, stampato a Basilea nel 1556, avrà grande importanza nella diffusione del riferimento alla cultura classica (o per meglio dire di derivazione ellenistica) come strumento sapienziale, di intonazione neoplatonica attraverso cui interpretare il mondo: si tratta, secondo Valeriano, di riscoprire «quel segreto modo che fu presso di loro (gli antichi), di dipingere e intagliare, i quali avevano pensato un certo muto parlare da intendersi con la mente per mezzo dell’immagine delle cose; non da pronuntiarsi con alcun suono di voce (…) essendone stati senza dubbio gli inventori i sacerdoti d’Egitto, i quali dipoi tutte le nationi, che hanno qualche scienza delle cose, si sono sforzati d’imitarli».
Si presenta così una cultura esoterica, riservata a pochi che si appalesa con una faticosa operazione di svelamento. Così come i pittori cercavano tra i cunicoli pericolanti dei resti della Domus aurea i segreti dei vari stili imperiali, così i dotti della cultura ficiniana cercano nel simbolismo delle immagini antiche la chiave della rivelazione sacro-profana. Al limite, il mondo tutto appare come un geroglifico accessibile ai soli iniziati, un gigantesco emblema il cui testo sarebbe andato perduto.
Si misura qui come in altri campi – l’astrologia, l’alchimia – il percorso compiuto dalla cultura storiografica europea che aveva per tutto un lungo tempo disegnato il Rinascimento e più in generale il Cinquecento come il tempo chiaro per eccellenza, il tempo dell’armonia, della serenità razionale. E’ merito dell’iconologia (definita come quello speciale ramo di studi che si prefigge di decifrare le forme simboliche dell’arte) se quel procedimento oppositivo che voleva confinato nel Medioevo il tempo del simbolismo e dell’allegoria, è stato abbandonato; e se l’interesse per la simbolizzazione si è ben esteso alla cultura rinascimentale e a quella barocca, seicentesca. I nomi di questa rivoluzione sono quelli ben noti di Aby Warburg, di Erwin Panofsky e di Ernst Gombrich e nel campo della cultura più propriamente storiografica quel filone di studi che prende le mosse, anche contestandone i risultati, dai lavori pionieristici di Frances Yates.
E tuttavia vedere nell’emblematica solo una delle espressioni della riscoperta della cultura classica mediata dall’attrazione per il sapere esoterico, per le culture misteriosofiche ed arcane è una prospettiva parziale. Vari altri filoni culturali contribuiscono a quella che Fernando de La Flor ha chiamato la «protoemblematica». L’emblema, infatti, dotato di corpo iconico e di anima verbale, rimanda anche alla cultura nobiliare tradizionale del blasone e dell’insegna: la pratica araldica presenta aspetti che ricordano molto da vicino quella che poi sarà l’attitudine emblematica. Per Paolo Giovio, del resto, gli emblemi nascono dalle vesti dalle livree e dalle insegne dei guerrieri per significare parte dei loro generosi e alti pensieri. E Baldassarre Castiglione ne Il Cortegiano scrive che «il cortegiano porrà cura d’aver cavallo con vaghi guarnimenti, abiti ben intesi, motti appropriati, ed invenzioni ingeniose, che a sé tirano gli occhi dei circostanti, come calamita il ferro». A sua volta Angelo Poliziano scrivendo a Geronimo Donati descrive bene questa frenesia che deriva dalla capacità egemonica della cultura nobiliare e delle sue genealogie immaginarie: «quello vuole un motto per il pomo della spada o per l’emblema dell’anello… questo un’impresa non dico per la sua argenteria ma per i cocci di casa…». Si rappresenta qui una vera e propria espansione della cultura nobiliare che oltrepassa i suoi ambiti sociali per influenzare altri mondi come quello dei dotti: nelle accademie, si pensi ad esempio alle famose «pale» degli accademici della Crusca, ogni membro ha un nome accademico, un motto, un disegno a mò di impresa.
Poi vi è certo la tradizione numismatica delle medaglie e delle monete. Una delle immagini più ricercate, quella della fenice (l’immagine che è anche la marca della casa editrice Giolito de’ Ferrari di Venezia laddove Manuzio sceglierà invece la famosa ancora col delfino) è un’immagine che è transitata alla cultura europea moderna prevalentemente attraverso le monete greche e romane
E ancora v’è la tradizione ludico-rinascimentale, quella dei giochi ma anche delle feste. L’universo delle celebrazioni e delle feste apre uno spazio molto particolare, straordinariamente efficace per l’espressività emblematica: le architetture effimere, gli archi trionfali, gli altari addobbati, le scenografie, sono piene di sculture e pitture allegoriche ma anche di epigrammi e di versi che sono veri e propri messaggi allo spettatore. Poi, certo, vi è ancora la tradizione medievale dei bestiari ma anche dei repertori erborici e dei lapidari. In generale si può dire che la tradizione alchemica, così come quella astrologica, ha grande affinità con quella emblematica.
Nel corso del Cinquecento l’emblematica prende la sua veste definitiva. Con Andrea Alciato (Emblematur liber, Augsburg 1531) l’emblema è fissato classicamente come triplex: composto cioè da figura, titolo e testo. La cultura rinascimentale tenta di operare ormai distinzioni precise tra emblemi, imprese, geroglifici, divise etc. Come è stato osservato, questo intento ordinatorio e classificatorio piuttosto che semplificare complica il quadro: perché tutti questi testi, figure parlanti o motti illustrati, si innestano in un terreno di rimandi fitto e intricato in cui è difficile rintracciare le fonti originarie mentre è frequente il prestito parallelo da una fonte all’altra. E poi con l’opera dei tre grandi mitografi, Lilio Gregorio Giraldi, Natale Conti e Vincenzo Cartari viene fissato il grande repertorio della cultura mitologica. In un testo come quello di Cartari l’intento divulgativo è ormai preponderante. Per certi aspetti, l’Iconologia di Cesare Ripa conclude un processo che impegna il grosso del Cinquecento di volgarizzazione, disvelamento, popolarizzazione della cultura simbolica. Con Ripa alla mano, com’è stato detto, si può spiegare la maggior parte delle allegorie che ornano i palazzi e le chiese di Roma, e non solo di Roma. Se Bronzino, Vasari e i Carracci avevano usato Cartari, anche Ripa è a sua volta una fonte e di conseguenza una chiave interpretativa di tutto rilievo.
Si ha qui il passaggio, tante volte notato, dal mondo culturale sapienziale che ispira la prima attenzione verso il sapere arcano dei segni, ad un’attitudine all’allegorizzazione intesa come disvelamento, talora superficiale, del simbolo che viene privato della sua carica polisemica. Spiegato esso appare irrimediabilmente depotenziato. Come è stato osservato, quegli stessi geroglifici che nella fantasia degli umanisti erano il simbolo di una profonda e originaria sapienza divengono ora un semplice equivalente visivo di un discorso, sicché al simbolico si sostituisce il discorsivo e l’allegorico. A partire dagli anni ’70, in Spagna cominciano ad apparire esegesi erudite di Alciato, e viene crescendo una proliferazione di scolii, dichiarazioni, postille dirette ad illustrare il senso nascosto, creando o illuminando sensi espliciti al posto del velato fondo enigmatico. Il testo invade lo spazio figurale e l’immagine viene così testualizzata e al tempo stesso determinata, fissata. Il linguaggio emblematico viene decifrato e tradotto in un equivalente verbale.
Rimangono tracce, certo, della originaria attitudine, ma esse sono sempre più labili. Delio Cantimori scrive di imprese prodotte nell’ambito del nicodemismo non tanto oscure da non poter essere comprese dagli intenditori raffinati, non tanto evidenti da poter essere comprese da qualunque plebeo o animo basso di denunciatore o spia dell’inquisizione. A parte che questo atteggiamento più che nicodemistico attiene alla originaria natura esoterica dell’impresa (come aveva scritto Paolo Giovio l’impresa perfetta «non deve essere oscura di sorte ch’abbia mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda») v’è da chiedersi come incida in questo processo di razionalizzazione del paganesimo la trasformazione religiosa in atto con la riforma. Se cioè l’antica adesione ad una cultura pagana di stampo misteriosofico non diventi, in un tempo di scontro ideologico, qualcosa di diverso, da far rigiocare magari in chiave politique, ma che sicuramente nel prendere le distanze dalle «favole e bagattelle» (per citare Bruno) dell’ortodossia religiosa non può più rifugiarsi in un mondo di miti e simboli ormai disvelato.
Si aprono invece altre possibilità: gli emblemi possono essere usati, riprendendo la tradizione erasmiana, come ricettari morali. E’ il caso degli Emblemas morales di Sebastian de Covarrubias Horozco, (cappellano di Filippo III e consultore del Sant’Uffizio): casi offerti alla coscienza del lettore perché possa trarne profitto. Siamo del resto agli inizi del 600, il tempo aureo della casuistica. Oppure possono divenire con Juan Solorzano Pereira e soprattutto con La Idea de un príncipe político y christiano di Diego Saavedra y Fajardo, letrado di camera del cardinale Borja e poi plenipotenziario alla pace di Münster, una meditazione sofferta, in chiave tacitista, della politica del principe nello scorcio del declino della Monarchia. Perduta definitivamente la dimensione simbolica, gli emblemi di Saavedra sono filosofia politica illustrata ad uso dei dotti. Ad essere disvelato non è più il pantheon ma «lo scettro de’ reggitori», o se si preferisce gli arcana imperii. E questo avviene in quel fatale 1640, emblematico anno di inizio dell’epoca delle rivoluzioni.
Sicché è forse possibile concludere osservando che la cultura barocca eredita dalla tradizione umanistico-rinascimentale gli emblemata ma li trasforma, ne fa uno strumento pedagogico e anche politico, li tramuta in una delle chiavi della comprensione del mondo sociale che – proprio come il mondo della natura che Galilei voleva fosse scritto in numeri – va esso stesso decifrato e compreso; e questo al di là delle strategie di manipolazione (simulazione e dissimulazione) messe in campo dai soggetti. La cultura emblematica allora diviene qualcosa di differente, una sorta di porta stretta ed obbligata per l’ingresso in quell’universo della comunicazione che fonda la base della politica e della società barocca.