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Andrea Zappia, La vita quotidiana degli schiavi musulmani a Genova nelle tavole di Cornelis De Wael (1647)

Cornelis De Wael (Antwerp 1592 – Roma 1667) fu un pittore fiammingo naturalizzato genovese, città nella quale soggiornò quasi ininterrottamente a partire dal 1619. Insieme con il fratello Lucas (Antwerp 1591 – ivi 1661) diedero vita ad una “colonia” di pittori fiamminghi, facendo della loro casa-bottega una sorta di base nella quale i pittori stranieri che giungevano a Genova potevano trovare alloggio e supporto economico e logistico per ottenere le migliori commissioni. Tra i frequentatori della loro casa vi fu Antoon Van Dyck, il quale dedicherà ai due fratelli un meraviglioso duplice ritratto (attualmente conservato a Roma presso i Musei Capitolini).

Zappia1All’interno della produzione artistica di Cornelis De Wael sono individuabili due filoni: le poco divulgate opere di “maniera grande”, derivanti da altolocate committenze, per esempio da parte della famiglia Bentivoglio, e le opere di “maniera piccola”, le cui composizioni di medie e piccole dimensioni, popolate da una moltitudine di figure, lo resero celebre. A questo secondo filone sono riconducibili le dodici incisioni a bulino su carta vergellata raffiguranti alcuni schiavi musulmani che nel 1647 l’artista fiammingo dedicò a Giovanni Battista Cachopin de Laredo, cavaliere del Sacro Romano Impero.

Zappia2Questa serie di scorci della vita quotidiana dei “mori” che popolavano la darsena ci apre una interessante finestra sul passato; non attratto dalla brutalità e dalla drammaticità, bensì dal capriccio e dall’ironia, il De Wael rende queste sue incisioni una costellazione di schiavi con la pipa in bocca tranquillamente seduti su sacchi e barili, di donne accomodanti che si intrattengono allegramente con musulmani e soldati, di “papassi” e di sonnecchianti aguzzini. In una incisione alcuni prigionieri cucinano e macellano un capretto, in un’altra altri di questi fanno i conti dei soldi raggranellati con i loro piccoli traffici, in una ulteriore ancora un “turco” addirittura estrae un dente ad un popolano. Il gusto evenemenziale delle varie situazioni raffigurate conferma la visione gramsciana di una storia disgregata ed episodica dei gruppi sociali subalterni; gli schiavi musulmani, pur interagendo con gli strati più bassi della popolazione, seguono una routine scandita da ritmi propri e godono di una certa autonomia. La tranquillità generale che domina le incisioni, corroborata dalle fonti documentarie, ci porta a confermare ancora una volta la faziosità del giurista Charles Dupaty, il quale nel suo “Lettres sur l’Italie en 1785” si mostrava indignato riguardo alle condizioni degli schiavi presenti a Genova, peraltro poi liberati e festeggiati della popolazione nel 1797.

De Wael risulta artista sincero, il quale non deforma l’ambiente ed i soggetti che ritrae: egli dimostra una sensibilità differente rispetto alla coeva scuola dei “bamboccianti” romana, sempre volta a ridurre su di un piano quasi infantile le scene quotidiane di un popolo spiantato, miscellaneo e disgraziato.

BIBLIOGRAFIA:

  • P. Castagneto, “a sola riserva della perduta libertà”. La schiavitù nel Mediterraneo nella seconda metà del Settecento, in “RiMe”, n°1 (dicembre 2008), pp. 29-50;
  • M. Dupaty, Lettere sull’Italia nel 1765, a cura di Davide Arecco, Novi Ligure, Città del Silenzio Edizioni, 2006;
  • G. Giacchero, Pirati barbareschi, schiavi e galeotti nella storia e nella leggenda ligure, Genova, Sagep, 1970;
  • R. Soprani, Vite de’ pittori, scultori, ed architetti genovesi, rivedute e accresciute di note da Carlo Giuseppe Ratti, Genova, 1768, 2 voll., I, pp. 464-468.